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La violenza sulle donne madri che lavorano.

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E se le donne, vittime di violenza negli spazi/tempi del lavoro, fossero anche madri?

Ci possono essere diverse opzioni da considerare: – sei donna e diventi madre mentre lavori presso un’azienda/sei una professionista autonoma; – sei donna e diventi madre ma perdi/sei costretta a lasciare il lavoro/ne devi cercare uno nuovo; – sei donna e, mentre lavori, subisci discriminazione per il fatto di avere figli/figlie; – sei donna e il fatto che tu diventi madre, ti (fanno credere che) toglie competenza e credibilità.

Se la donna che cerca/trova lavoro è anche una mamma, lo stereotipo e l’aspettativa distorta su di essa aumenta esponenzialmente:

“Stilare un elenco di questi ostacoli ideologici è piuttosto semplice, non si tratta di certo di grandi misteri: le donne sono ritenute per loro natura più dotate sul piano relazionale, gli uomini in quello decisionale; la valutazione delle competenze e dei risultati ottenuti da una donna è sempre peggiore rispetto a un pari grado uomo; alla donna viene richiesto sul lavoro di esprimere le qualità stereotipicamente femminili, rendendo di fatto impossibile per loro accedere a determinati ruoli; esiste un peso della componente estetica nell’ottenere incarichi o nel fare carriera, e il giudizio negativo sulle proprie competenze che quella componente determina; il cosiddetto maternal wall, fenomeno per cui le madri sono percepite come meno attente e concentrate sul lavoro perchè già troppo occupate nel pensare alla prole […]”.

“La donna che decide di partorire, nella maggiore parte dei casi, deve confrontarsi con drastici cambiamenti non desiderati della sua situazione lavorativa. Nel peggiore dei casi, il datore di lavoro trova gli strumenti, più o meno fraudolenti, per allontanarla; nel- diciamo- migliore dei casi la donna genitrice acquisisce automaticamente delle caratteristiche e ne perde altre, senza che lei possa opporsi. Le viene attribuito più «calore» ma meno competenza, spesso le viene cambiata mansione; esce dalla possibilità di fare carriera, perchè la scelta genitoriale tradirebbe la volontà di mettere l’azienda in posizione subordinata alla famiglia”. (Lorenzo Gasparrini, “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni“, Edizione Settenove).

L’appartenere al genere femminile, attiva stereotipi su chi la donna dovrebbe essere: se poi la donna diventa madre, le aspettative sulla cura diventano automatiche. E ci si aspetta poi che la donna-madre-lavoratrice sia in un modo ben preciso: sempre disponibile e accogliente, ma più stanca e meno in grado di assolvere il proprio compito. Una cascata sempre aperta di pregiudizi, che oltre a creare danni su un piano reale, può determinare una fortissima pressione interna alla donna, che non sa più chi è o cosa deve fare.

Scrive Michela Murgia, in “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” (Edizione Einaudi),

“[…] il fatto che da una donna ci si aspetti una qualche forma di maternage nell’esercizio del potere di gestione di un gruppo di lavoro comporta una dispersione di energia personale […]. Da una donna nessuno si attende che faccia il capo, ma se proprio deve esserlo, allora che sia un capo-mamma dolce e comprensiva , pena la riduzione a stronza senza cuore”.

Maria Anna Di Gioia, nel testo che vi consigliamo (specie per parlare ai/alle giovani della violenza sulle donne) “Com’è l’acqua? Riconoscere ogni giorno il mare invisibile del patriarcato” (Edizione Settenove), a proposito di quello che chiama “il dribbling tra maternità e lavoro”, ci fa notare come

“Nonostante farlo sia un reato, è ancora frequente la pratica di chiedere a donne neoassunte se abbiano intenzione di sposarsi e/o di avere figli. Questo perchè già si dà per scontato che saranno loro a doversi assentare nei mesi subito prima e dopo il parto, ad aver bisogno delle ore di allattamento, a chiedere permessi per fronteggiare le emergenze, a non essere disponibili per gli straordinari, ad essere più stanche a causa del carico mentale che grava per lo più su di esse. […] Sarà lei a chiedere il part time per poter seguire il figlio o la figlia, se non addirittura a licenziarsi, come accade spesso. La realtà è che la società non si è ancora adeguata in modo significativo al cambiamento determinato dall’ingresso di molte donne nel mondo del lavoro, e le misure di sostegno alla genitorialità e alla prima infanzia e/o una riorganizzazione dei tempi di vita e di lavoro della coppia sono lontane dall’essere messe in atto”.

E allora quali sono le parole che possiamo dire, in questa IV Edizione delle #NoViolenceWeeks di Arca?

Non è possibile continuare a normalizzare e naturalizzare una scelta da parte della donna (tra carriera e famiglia), laddove lo stesso non è mai richiesto ad un uomo. E non è più accettabile mettere le donne nella condizione di sentirsi, già dopo un evento di così impatto emotivo e di grandi trasformazione su un piano reale (come avere un/una figlio/a), ancora di più in uno stato di frustrazione (e rischioso isolamento/ solitudine) poichè

  • viene loro precluso l’accesso al diritto ad avere un lavoro;
  • vengono discriminate, al momento del ritorno alla propria occupazione, mediante aspettative frutto di stereotipi sul genere femminile.

Noi di Arca, per il sostegno alle (neo)mamme anche rispetto al tema del (re)inserimento lavorativo e della violenza di genere, abbiamo attivato diversi servizi, e molto ancora abbiamo intenzione di fare:

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