“Un team di ricercatrici scopre un nuovo virus? Per il quotidiano nazionale sono «le ragazze del microscopio». In una riunione aziendale un uomo cede il turno a un gruppo di colleghe che deve approfondire il tema dopo di lui? «E allora che parlino le ragazze!». Le ragazze hanno diciotto anni anche quando ne hanno quaranta, perché la ragazzitudine è uno stato mentale (degli altri) in cui sei eternamente un’apprendista, una stagista, una simpatica mascotte che ha ancora tanto da imparare, a cominciare da come si fa un buon caffè con la cremina”.
(Michela Murgia, “STAI ZITTA e le altre nove frasi che non vogliamo“)
Quando la violenza sulle donne si palesa e sostanzia con un attacco fisico diretto o un abuso sessuale (fino al femminicidio), nell’ambito lavorativo (e non solo), siamo in presenza di una vera e propria escalation che è ben esemplificata dalla PIRAMIDE DELLA VIOLENZA.
Questa convenzionalmente viene utilizzata per spiegare come il fenomeno della violenza sulle donne non sia un qualcosa di sporadico o casuale (il cosiddetto “raptus” o “atto romantico d’amore”!), ma rappresenti un complesso sistema di pensieri, linguaggi e azioni che
hanno una radice culturale (Cultura dello stupro); si tramandano tra generazioni; vengono costantemente normalizzati, mediante la distorta narrazione dei mass media e dei social network.
Una ironica “battuta” sessista è l’anticamera di una violenza agita.
LA PARTE BASSA DELLA PIRAMIDE.
Alla base della piramide c’è una rete di stereotipi, pregiudizi, linguaggio discriminatorio ed offensivo verso il genere femminile: si tratta di modalità narrative denigratorie verso le donne, con le cui le si oggettifica, le si svalorizza e le si rende contenitori vuoti da utilizzare a piacimento di chi pensa di possederle.
Quante volte ci sarà capitato di sentire (o pensare voi stessi/e!) che le facoltà scientifico-matematiche non sono adatte alle donne? Ancora, che le posizioni di comando nelle grosse aziende multinazionali non sono adatte alle donne, specialmente se/quando diventando madri? Si tratta di stereotipi di genere.
La discriminazione corre veloce e raggiunge le donne già nei loro percorsi educativo- formativi: all’interno di famiglie che agiscono spesso inconsciamente stereotipi di genere sulle donne, è altamente probabile che le bambine e le ragazze siano maggiormente influenzate a scegliere corsi di studi che hanno a che fare con la cura e la presa in carico altrui. Molte figlie crescono con l’idea che le donne non siano all’altezza delle cosiddette discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) e laddove riescano ad accedervi, costruendovi anche una carriera, vivono spesso un clima in cui sono spinte a sentirsi “ospiti” non tanto gradite e non legittime.
Esistono aspettative discriminatorie sulle donne rispetto a – quanto dovrà corrispondere la loro retribuzione salariale; – il loro reale interesse a raggiungere determinate posizioni lavorative; – la loro disponibilità effettiva, in seguito all’esser diventate madri (o alla loro presunta dedizione totale al lavoro, se decidono di non avere figli/e).
L’invito che Arca pone, nei vari contesti in cui lavora (psicoterapia individuale, sostegno alla genitorialità, eventi di sensibilizzazione), è quello di fare molta attenzione ai racconti ed alle storie che ognuna di noi donne fa di sè e delle altre; a quelle che gli uomini fanno di loro stessi e delle bambine, ragazze e donne che conoscono. Le parole per definire sè e l’altro possono avere un peso specifico da non sottovalutare: processi di svalutazione possono avviarsi o aggravarsi, già nell’ambito di una semplice conversazione.
“Il linguaggio aggressivo […] è esso stesso violenza, poiché infligge dolore. A disegnare scenari angoscianti sono i luoghi e i momenti in cui la violenza si fa sistemica. Essa viene comunemente giustificata e ricondotta al quotidiano”. (Priulla G. “Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo”, Edizione Settenove).
Arca chiede spesso di osservare come le donne vengono raccontate dai social, da alcune testate giornalistiche, da film, spettacoli, testi scritti, pubblicità: curioso, ad esempio, è leggere se a scrivere certi contenuti sulle donne siano uomini o donne stesse. Ancora, non dimentichiamo le aule dei Tribunali dove – si registrano commenti sessisti e denigratori verso le avvocate libere professioniste; – sono all’ordine del giorno allusioni su quanto le vittime di violenza “se la siano cercata” (vittimizzazione secondaria), in base al vestiario o per il semplice fatto di trovarsi in uno specifico posto.
“La prima operazione da compiere, rispetto a ogni stereotipo e quindi anche agli stereotipi di genere che tendono a diventare automatismi, è quella di farli emergere, di acquisirne consapevolezza, di riconoscerli, perché solo così possiamo evitare di lasciarci condizionare”. (Priulla G. “Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo”, Edizione Settenove).
Ci sono parole che dobbiamo dire! E lo dobbiamo fare nel quotidiano, nei luoghi e nelle relazioni in cui ci muoviamo. Come?
- E’ possibile pensare nuove narrazioni di se stesse, sovvertendo le aspettative e le pressioni che derivano dai ruoli che ci riguardano, in primis in quanto appartenenti ad un genere.
“Sono la dottoressa …, non la signorina…”, “Ho il diritto di ricoprire questo ruolo”, “Sono competente e posseggo le conoscenze adeguate”.
- E’ necessario rivedere profondamente il personale modo di approcciarsi alle donne, in qualsiasi situazione privata e non, con l’obiettivo di creare processi di supporto reciproco e valorizzazione personale
“Che esperienze/ problematiche può aver affrontato la mia collega/la mia responsabile per agire in questo modo?”, “Cosa posso imparare dalla mia collega e dal suo lavoro?”, “Durante questo colloquio di selezione del personale, non verrà effettuata nessuna domanda discriminatoria sulla sua vita privata”.
- E’ auspicabile riflettere sull’urgenza di un linguaggio che sia realmente inclusivo, accogliente e in grado di valorizzare la differenza come un elemento di crescita ed empowerment, piuttosto che una problematicità
“Apprezzo la mia unicità che nasce dalle mie differenze”, “La ringrazio, ma non ho intenzione di fare dell’ironia offensiva verso me e le donne”, “Non sono interessata a sentirmi superiore a nessuna ma neanche a nessuno: la parità di genere è la mia priorità”.
La base della piramide è il punto da cui partire per iniziare una rivoluzione culturale, linguistica e umana di parità di genere. E tutto ciò assume carattere di grande urgenza nel mondo del lavoro, dal quale spesso le donne vengono tagliate fuori o viene loro impedito di raggiungere posizioni apicali.
RISALENDO LA PIRAMIDE.
Più si scala la piramide, più la donna viene privata di valore, spersonalizzata e ritenuta un oggetto da controllare, manipolare, confondere, isolare. Il corpo femminile diviene palcoscenico di controllo da parte dell’uomo, perché lo si tratta come merce di scambio, mediante uso improprio di immagini private, apprezzamenti volgari in pubblico o nel privato di una chat tra colleghi, assalto sessuale, maltrattamenti fisico, femminicidio.
Nei rapporti di lavoro, dove le dinamiche di potere possono essere molteplici e sfaccettate, per una donna può essere molto complicato difendersi o letteralmente sopravvivere, se sente di essere sola o addirittura se pensa di essere lei stessa a confondere i segnali che le arrivano da clienti, colleghi, capi. Sentirsi a disagio o in pericolo per la propria incolumità diventa un vissuto che accompagna gran parte della vita di una donna, all’interno di un’azienda o nel contesto di una libera professione: la denuncia di un fenomeno violento può esser impossibile, anche solo per il fatto di avere paura di perdere il proprio lavoro.
E’ essenziale confrontarsi con figure professionali esperte in violenza di genere per comprendere le reali possibilità, anche dal punto di vista legale, di denuncia del fenomeno.
Se stai subendo o hai subito una forma di violenza in ambito lavorativo e senti la necessità/urgenza di confronto /supporto, questi i nostri contatti:
324.6236453
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