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LA SOCIETA’ E LA CULTURA DELLA VIOLENZA: mass media, stereotipi e adolescenza

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Che succede quando ad esser violenti, verso gli/le adolescenti, non sono coetanei/e o adulti/e bensì è la cultura di appartenenza e riferimento?

Vi diciamo, genitori, che esiste un condizionamento violento verso l’adolescenza, profondo e sottile, molto spesso nascosto

  • nel bombardamento costante e continuo di una certa immagine di sé e/o corporea, prevista e legittimata in alcune fasi dello sviluppo;
  • nella visione rigida di alcuni ruoli sociali;
  • nelle aspettative di come ci si debba vestire, agire, sentire se si appartiene ad uno specifico gruppo.

E quasi sempre si tratta di una violenza veicolata da stereotipi e pregiudizi trasmessi dai mass media e/o dai social network (oltre che circolanti nelle principali agenzie di socializzazione dei/delle giovani, la famiglia e la scuola).

Certi stereotipi sugli/sulle adolescenti (“Sono tutti violenti”, “Scansafatiche”, “Le ragazze pensano solo alla loro immagine”, “I ragazzi sanno soltanto litigare tra loro”, ecc….) possono esser fuorvianti e difficili, per l’adolescente stesso, da sottoporre ad un giudizio critico, specialmente in una fase in cui

-quest’ultimo si sta formando; – il lasciare una zona conosciuta (legittimata ed approvata dai più) può significare sentirsi profondamente soli, fuori da una cerchia; -mettere in discussione un messaggio passa anche dall’aver a disposizione figure adulte di riferimento, con cui confrontarsi.

STEREOTIPO

“Lo stereotipo […] consiste nello sposare un giudizio impersonale elaborato altrove senza dover assumere la responsabilità, né produrre lo sforzo di generarlo personalmente… […. al fine di] scongiurare un confronto diretto con la realtà, ossia con la dimensione fenomenica ed esperienziale”. (Di Francesca R. Recchia Luciani, in “Come è l’acqua? Riconoscere ogni giorno il mare invisibile del patriarcato”, pag. 11, di Maria Anna Di Gioia, Edizione Settenove).

“Gli stereotipi esistono perché sono funzionali e semplificatori […] Il problema è che queste semplificazioni producono discriminazioni e gabbie interpretative e valutative, che finiscono per imprigionare, condizionare e rafforzare comportamenti e convinzioni causando sofferenza in chi li subisce”. (Maria Anna Di Gioia, “Come è l’acqua? Riconoscere ogni giorno il mare invisibile del patriarcato”, pag. 19, Edizione Settenove).

STEREOTIPI DI GENERE

Nelle #NoViolenceWeeks di Arca ci interessa raccontarvi degli stereotipi sociali, indirizzati al genere percepito dall’adolescente ed al suo modo di vivere la propria identità psicoaffettiva e sessuale.

Dice la Di Gioia: “Nelle pubblicità […] le donne continuano ad essere rappresentate secondo le vecchie immagini stereotipate della casalinga, della donna oggetto di desiderio maschile o, al contrario con contro-stereotipi oltre misura” (Maria Anna Di Gioia, “Come è l’acqua? Riconoscere ogni giorno il mare invisibile del patriarcato”, pag. 32, Edizione Settenove). Il corpo femminile è associato al nudo, alla provocazione sessuale, alla magrezza e comunque per lo più appartenente a donne in ruoli gregari, marginali. Di contro, quello maschile viene oggettivato mediante la forza fisica, il desiderio sessuale irrefrenabile, la mancanza di contatto con le proprie emozioni.

Questi sono messaggi altamente dissonanti e distorti, per una ragazza che non desidera in futuro dedicarsi alla cura della famiglia, ma investire solo su una carriera. E altrettanto si tratta di immagini che possono pesare profondamente in un ragazzo che sente di non identificarsi, da adulto, con il ruolo di procacciatore di cibo e con una virilità senza macchia o paura. Ancora sottolineiamo come comunicazioni stereotipate diventino fonti di grande malessere per adolescenti, che vivendo la propria identità di genere in maniera fluida e non binaria, non stanno comodi in queste restrittive definizioni “maschio-femmina e come esserlo”.

Gli stereotipi di genere diventano, in gruppi di adolescenti organizzati attorno al nucleo della violenza, benzina per il fuoco delle aggressioni verbali, fisiche o sessuali verso le coetanee, ree di essere troppo provocanti, o per minacce e derisioni verso i coetanei, colpevoli di non essere abbastanza “maschi”: proprio in questi giorni, stiamo assistendo a narrazioni molto pericolose, da parte dei giornali, di ragazze che appartengono, come oggetti, ai propri compagni e ragazzi che, controllando le fidanzate e la loro vita, sono definiti “bravi ragazzi”.

La violenza può “essere ascoltata, nei testi delle canzoni di interpreti anche famosi, e mimata nei video musicali; proposta come normale in alcuni videogiochi diffusi tra bambini e ragazzi; osservata come accade quando ci si trova a guardare alcuni film, pubblicità o trasmissioni televisive dai contenuti sessisti e misogini; rappresentata come modello accettabile di relazione sessuale, come accade nella pornografia violenta; banalizzata in certi articoli proposti dalla stampa” (Lucia Beltramini, “La violenza di genere in adolescenza. Una guida per la prevenzione a scuola, pag. 99, Carocci Editore).

E questa sovraesposizione discriminatoria potrebbe essere cominciata, per il/la vostro/a adolescente in sviluppo, da tempo:

“Il fenomeno della genderizzazione dei prodotti per l’infanzia è sempre esistita […]. Assegnare determinati giocattoli, colori e vestiti a bambine e bambini non è una scelta “naturale”, ma culturale e commerciale, basata su stereotipi volti a rafforzare la socializzazione di genere, quel processo mediante il quale bambine e bambini apprendono le aspettative sociali in relazione al sesso di appartenenza. […] Negli spot televisivi di giocattoli assistiamo a una significativa polarizzazione sessuale riconducibile, per le bambine al binomio “seduzione e riproduzione”, con valori di riferimento la bellezza e la moda, da un lato, la cura delle bambole e le faccende domestiche, dall’altro; per i bambini, i valori veicolati dai giochi sono l’avventura, la competizione, il coraggio, il rischio, la velocità, la guerra, lo sport, la manipolazione degli oggetti, la costruzione”. (Maria Anna Di Gioia, “Come è l’acqua? Riconoscere ogni giorno il mare invisibile del patriarcato”, pag. 35, Edizione Settenove).

I bambini finiscono per esser coinvolti in giochi che ne provino la loro resistenza fisica; le bambine diventano esseri fragili e da proteggere: non solo queste erronee fantasie vengono agite verso figli/figlie sin dalla nascita e per tutto lo sviluppo, ma vengono letteralmente incarnate da figli/figlie stessi/e, come unici scenari possibili (auto-oggettivizzazione sessuale).

COSA FARE ALLORA?

Narrazioni differenti sono possibili: già a partire, in famiglia, da cambiamenti nel lessico, nelle espressioni, nelle metafore usate per parlare di sé e dell’Altro/a. Voi genitori potete e dovete scegliere registri linguistici non mortificanti, non violenti ma piuttosto che mirino a cogliere le differenze tra noi e gli/le Altri/e, come elementi da valorizzare, non certo come fattori per discriminare.

Vi proponiamo un piccolo esperimento: provate a pensare e a trascrivere aggettivi e caratteristiche che sentite a voi associati (come donne, madri, uomini, padri) dalla vostra cultura di riferimento: riflettete sul vostro lavoro, la vostra posizione economica e sociale, le vostre famiglie e amicizie, il vostro orientamento sessuale ed il vostro corpo. Bene, ora scrivete.

Poi provate a fare la stessa operazione rivolta ai/alle vostri/e figlie: scrivete.

Infine, concludete questa operazione rileggendo quanto scritto e provando ad individuare stereotipi: letteralmente sono espressioni su di voi e vostri/e figli/e, che non vi/gli direste mai perché sentite scomode, ma che pensate la cultura si aspetti da voi/loro ed è così che voi/loro dovete/devono essere. Se li avete trovati, sostituite gli aggettivi/le narrazioni emerse con espressioni “neutre”, non mortificanti il valore della persona, non sessualizzati, non discriminatorie o stereotipate. Riuscite?

Arca.

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